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Roca Vecchia a Melendugno

Il Castello di Roca Vecchia 

Rimangono soltanto i ruderi della Rocca fatta erigere da Gualtieri VI di Brienne, conte di Lecce, all’inizio del trecento sulle rovine dell’antica cittadina messapica e poi romana sorta a sua voltasse un precedente insediamento preistorico costoro. Attualmente è nel territorio di Melendugno dalla quale dista 9 km.
Il Castello ha il lato Nord-Est strapiombante sul mare e anche quello di Nord-Ovest segue per un tratto il profilo di una insenatura marina. Gli altri lati guardano la campagna pianeggiante. Su di una punta rocciosa protesa verso il mare, poco lontana dal castello, si vede il rudere di una delle torri costiere cinquecentesche che porta lo stesso nome. Parecchie gallerie sotterranee scavate nella roccia mettevano in comunicazione l’interno del castello e il borgo con il mare, qualora fosse necessaria la fuga.

Con la morte di Gualtieri VI di Brienne nel 1356, la contea di Lecce passò ai D’Enghien nella persona di Maria e da questa al figlio Giovanni Antonio Orsini, Principe di Taranto, che costantemente si preoccupava che il castello fosse ben munito. Nel 1463 passò agli Scisciò, nobile famiglia leccese, originaria di Palermo venuta in Puglia al seguito degli Aragonesi.
Nel 1480, Roca, fu una delle località più colpite dall’assalto Turco, ma l’assedio mussulmano durò pochissimo in quanto i Turchi si diressero ben presto verso Otranto, dove si stanziarono perfezionando il loro assedio. Quando abbandonarono Roca alla volta di Otranto, non mancarono di incendiarlo.
A difesa di Otranto arrivò Alfonso, Duca di Calabria che si accampò a Roca. Insieme a lui arrivarono il conte Giulio Antonio Acquaviva, Matteo di Capua, don Cesare D’Aragona, figlio naturale del re, il duca di Melfi ed altri. Roca divenne così il quartier generale del contrattacco cristiano. Il castello fu ampiamente risanato e fortificato secondo le esigenze della nuova tecnica bellica e probabilmente, oltre a Giulio Antonio Acquaviva, anche l’ingegnere militare Ciro Ciri, inviato dal duca di Urbino in aiuto di Alfonso, duca di Calabria, contribuì al potenziamento del castello e diresse le operazioni dell’assedio di Otranto. Il castello di Roca e quello di Castro, costituì il propugnacolo della rivincita cristiana, grazie ad una serie interminabile di piani e di atti di eroismo.
Nel 1525, padre Leandro Alberto lo definì minutissimo e inespugnabile. Successivamente rimase abbandonato e divenne covo dei pirati per cui, col permesso di Creo V, don Ferrante Goffredo , Preside della provincia, si vide costretto a smantellarlo nel 1544. Rimase così da allora abbandonato allo stato di rudere.

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